Da un anno a questa parte, cioè da quando ho deciso di intraprendere la carriera di libera professionista, ho iniziato a interrogarmi su quanto la mia vita lavorativa possa definirmi da un punto di vista identitario. Il lavoro che faccio cosa dice di me? Mi incolla addosso un’etichetta specifica? E se io svolgo, nello stesso momento, lavori diversi, quale di questi mi definisce? E ancora, è giusto che sia il mio lavoro a definirmi in quanto essere umano?
Partendo da queste domande, ho deciso di sviluppare una riflessione sul legame tra lavoro e identità.
Partire da una premessa
Prima di iniziare, ci tengo a fare una premessa.
La percezione che abbiamo dell’identità, molto spesso, è strettamente connessa alla società in cui l’individuo si sviluppa. In questo articolo faccio riferimento alla situazione italiana, ai modelli di lavoro di cui io ho fatto esperienza e alla narrazione del lavoro di cui mi sono nutrita per anni.
Da quello che ho appreso negli anni di lavoro in Italia, se non hai un lavoro fisso sei una persona fallita.
Se frequenti l’università e poi non trovi lavoro nel tuo settore nel giro di un anno, sei una persona che non ce l’ha fatta.
Se non hai un’idea precisa su “cosa vuoi fare da grande” e se non imbocchi fin da giovane una strada che ti porterà ad avere una carriera si spera duratura, sei una persona svogliata e disinteressata, un peso.
Non c’è spazio per le incertezze, non è tollerato cambiare idea. Scegli una strada e segui quella.
È un modello che ha funzionato più o meno bene fino a trent’anni fa, ma ora è diventato insostenibile.
Il costo della vita è aumentato, gli stipendi non si sono adeguati, non esiste un salario minimo, costruire una vita indipendente e autonoma è complesso e richiede enormi sacrifici. Oltretutto, è difficile anche trovarlo, un lavoro.
Questa situazione genera un circolo di ansia e frustrazione che può trasformarsi in qualcosa di paralizzante.
La preoccupazione per il lavoro diventa così grande da invalidare ogni altro aspetto della vita.
Quando ho sentito questo disagio anche sulle mie spalle, mi sono chiesta se fosse giusto provare questa fatica invalidante nei confronti del lavoro. E mi sono risposta che no, non è normale.
Non parlo della stanchezza che si prova a fine giornata, parlo della sensazione di disagio profondo che si prova nel barattare il proprio tempo per denaro facendo qualcosa che non ci rappresenta, che non ci piace, che ci fa stare male.
Siamo abituati a percepire il lavoro come parte integrante della nostra identità. Difficilmente separiamo il nostro “essere” dal lavoro che svolgiamo, diventano un tutt’uno, e questa unione può facilmente diventare una catena da cui è difficile liberarsi.
Oltretutto, una volta trovato, il lavoro bisogna tenerselo stretto per tutta la vita.
In Italia vige questa regola non scritta per cui il lavoro a tempo indeterminato è sacro e va difeso con ogni mezzo, anche a costo di rimetterci la salute mentale.
Che sia il lavoro sognato e costruito tenacemente oppure un lavoro qualsiasi accettato solo per potersi mantenere, pare non ci sia spazio per ripensamenti o per cambi di direzione.
Una volta attraversata la porta del lavoro, resti lì per sempre, e tu diventi quel lavoro.
In quanti abbiamo provato queste sensazioni?

Cambio di rotta
Io allora mi sono chiesta: e se provassi a sganciare il lavoro da ciò che sono? Se la smettessi di definire la mia identità in base al mio lavoro?
La mia esperienza lavorativa, in effetti, non mi ha mai dato l’opportunità di creare una relazione solida tra chi volevo essere e il lavoro svolto.
Durante gli anni dell’università, per esempio, ho fatto la bidella in diverse scuole e ho dato ripetizioni. La scorsa estate ho fatto uno dei lavori più strani e allo stesso tempo complessi della mia vita, del tipo preparare pappa delivery per gatti e gabbiani e fare assistenza a una persona. Attualmente, faccio parte dello staff in un hotel in Canada.
Accanto a tutti questi impieghi c’è sempre stato l’altro mio lavoro, la scrittura.
Nel periodo universitario scrivevo per esami, tesi e collaboravo con un magazine culturale.
Adesso scrivo perché sono una professionista freelance, mi occupo di blogging, storytelling e strategia digitale. Sul mio canale youtube trovi il video in cui racconto la mia esperienza personale a riguardo: cosa vuol dire svolgere lavori diversi, come riesco a conciliarli, perché ho fatto questa scelta di vita.
Nel mio caso specifico nessuna formula fissa funziona: i lavori che faccio sono sempre diversi. Entrambi i lavori che svolgo in questo momento mi danno di che vivere: uno è scelto per passione ed è fisso, l’altro è un impiego stagionale. Uno è un lavoro creativo, l’altro è un lavoro fisico e manuale. Mi piacciono entrambi ed entrambi mi offrono la possibilità di imparare qualcosa di nuovo.
E allora quale dei due mi “definisce”? Quale dei due dice chi sono?
Il costante cambiamento della mia vita lavorativa mi ha messo di fronte a questo dato di fatto: il lavoro collabora alla formazione della mia identità, perché mi porta ad attraversare fasi di crescita, ma non costituisce tutta la mia identità.
Se tra un anno decidessi di stravolgere la mia vita lavorativa, la mia identità non ne verrebbe intaccata.
Sganciare il lavoro-che-faccio da ciò-che-sono mi ha permesso di approcciarmi con molta più serenità all’instabilità lavorativa in cui la mia generazione (quella dei millennial, per intenderci) vive da sempre.
Il mio vuole essere un invito gentile a provare: prova a cambiare, se ne senti il bisogno; prova a cercare altro, nessuno può giudicare le tue scelte.
Non parlo di stravolgere la vita, lasciare tutto e partire per il giro del mondo a piedi; mi riferisco a una forma di cambiamento più morbida e graduale, riferita nello specifico al mondo del lavoro: votarsi alla flessibilità e darsi la possibilità di provare lavori diversi, esplorare le proprie zone di interesse e regalarsi l’opportunità di fare esperienze nuove. Guardare al lavoro come un mezzo di crescita personale, non come la ragione di vita.
Se sleghi la tua identità dal lavoro che svolgi, sarà molto più facile cambiare quando arriva il momento.
Questo per dire che no, il lavoro che fai non può definire chi sei: sei tu che scegli chi essere, a prescindere da come spendi il tuo tempo in cambio di denaro. Non tutti sono per la flessibilità e il cambiamento, c’è chi nella zona di comfort si sente bene. Oppure c’è chi, al momento, non può permettersi di cambiare nonostante lo vorrebbe.
Se tu che leggi ti senti confortato da queste parole, sappi che siamo in tanti: un piccolo passo alla volta, andiamo avanti nel percorso verso il cambiamento.